Oggi qualsiasi persona con una connessione a internet ha accesso a un megafono virtuale. Un tempo, per far sentire la propria voce a un vasto pubblico, bisognava superare barriere come editori, giornalisti, accademici o, semplicemente, il buon senso di chi concedeva spazio solo a opinioni rilevanti o conformi.
Adesso basta un post ben confezionato o un reel accattivante con una frase a effetto.
Il problema non è che il mondo è diventato più stupido, ma che il rumore è aumentato esponenzialmente. Prima, le teorie più stravaganti (dai rettiliani ai terrapiattisti) rimanevano confinate in piccoli gruppi di individui eccentrici. Ora, grazie ai social media, chiunque può spargere informazioni con la stessa portata di un giornale nazionale. E, spesso, più un’idea è estrema, più viene premiata dall’algoritmo.
C’è un errore che continuiamo a fare: scambiare la popolarità per autorevolezza. Se una persona ha milioni di follower, deve saperne di più, giusto? Sbagliato. Avere un ampio pubblico non significa necessariamente essere competenti. Significa solo essere bravi a catturare l’attenzione delle persone online. Se ci pensi bene, un buon conoscitore di queste dinamiche potrebbe, nel giro di qualche mese, diventare un “guru” della finanza o spacciarsi per esperto di qualsiasi materia.
Non ha una reale competenza, ha solo capito il gioco: fornire risposte semplici a problemi complessi. Il pubblico distratto non cerca spiegazioni dettagliate, vuole pillole di saggezza facili da assumere. E così ci troviamo a credere a chi parla con più sicurezza rispetto a chi ha reali competenze. Uno scienziato che dice: “È una questione complessa, dipende da molti fattori” viene ignorato. Un tizio che urla: “Ecco la verità che non vogliono farti sapere!” conquista il pubblico.
Esiste poi una categoria ancora più insidiosa: gli pseudo-intellettuali. Quelli che parlano per frasi enigmatiche, lasciando il pubblico con la sensazione di aver ricevuto una rivelazione, quando in realtà hanno detto poco o nulla.
Hai mai letto cose tipo: “Il futuro appartiene a chi lo sta già vivendo nel presente”? Questa frase significa qualcosa? No. Ma mettila su un’immagine motivazionale come un’onda che si infrange sulla spiaggia e otterrai commenti tipo: “Questo post mi ha fatto bene all’anima”. Non serve dire cose sensate, serve dire cose che suonano profonde.
“Nell’oceano della comunicazione digitale vince chi è più ‘aerodinamico‘, nel senso che ha caratteristiche adatte a far diffondere le sue informazioni.” – Alessandro Baricco
Ogni giorno solo alcune parti della realtà riescono a emergere dal caos e catturare l’attenzione. Siamo in un gioco in cui chi si aggrappa a vecchie strategie resta indietro. La velocità con cui un fatto arriva in superficie dipende dalla sua aerodinamicità, ovvero dalla capacità di adattarsi alle dinamiche del sistema attuale.
I device hanno modificato il coefficiente di densità della comunicazione. Il velivolo più efficiente in questa aria rarefatta lo chiamiamo storytelling. Le notizie che vincono non sono sempre le più importanti, ma quelle che sanno volare. Non è follia, è semplicemente la regola del gioco.
Lo storytelling non nasce solo nel momento in cui accade un evento, ma prima ancora che avvenga. Per costruire un’ala portante efficace, bisogna saper creare fatti e narrazione simultaneamente, senza più separarli come si faceva in passato. Chi riesce a emergere sa intercettare le altre narrazioni in corso e appoggiarsi alla loro spinta ascensionale, proprio come un aliante. Pochi hanno questa capacità, ed è ciò che li distingue. È il loro marchio di fabbrica: costruire storie in grado di volare e dominare la superficie dei feed algoritmici.
Non tutto ciò che è virale è vero. Non tutto ciò che è semplice è corretto. E, soprattutto, non tutto ciò che è detto con sicurezza è giusto.
In questo mondo rumoroso, abbiamo una sfida complessa. Il nostro compito è imparare a distinguere i contenuti che ci arricchiscono dal frastuono e – anche noi – imparare a farli volare senza renderci ridicoli, patetici o inconsistenti.
Caro Riccardo,
leggere questo pezzo è come ascoltare una voce lucida in mezzo al frastuono. Hai toccato punti che vivo ogni giorno: la corsa al consenso, il peso dell’apparenza, la tentazione di semplificare tutto.
Solo su un punto mi fermo a riflettere: quel “megafono virtuale”.
Sì, è digitale. Ma ciò che produce – emozioni, reazioni, anche conseguenze concrete – è tutt’altro che distante o finto.
Quando una parola online può cambiare il tono di una giornata, un invito, un’opportunità… allora è qualcosa che ha corpo, non solo forma.
Forse non è la rete a essere “virtuale”. Siamo noi che ci siamo messi dentro con tutta la nostra carne. E da lì parliamo, ci esponiamo, ci raccontiamo.
Grazie per aver dato forma limpida a un tema che ci riguarda tutti. E per l’intelligenza con cui spingi sempre a guardare meglio.
Un caro saluto
Grazie a te, Giuseppe!