Da sempre ci raccontano una storia tossica riguardo al successo, al talento o al nostro destino. Una storia che ha fatto una strage di persone estremamente intelligenti, sensibili e ispirate.
Sono tanti a usare come scusa la narrazione sul talento: serve soprattutto come giustificazione, per autoassolversi, o come pretesto, per convivere con le proprie frustrazioni.

Il talento esiste, non lo nego. Ci ho sbattuto il muso da giovane, quando al mio amico Marco bastava ascoltare un brano di un disco per riprodurlo pari pari alla chitarra, senza doverlo studiare minuziosamente. Lui ha coltivato questo dono e oggi fa il musicista di professione, ma non ha mai raggiunto il successo, non lo fermano per la strada per chiedergli l’autografo e non gli hanno mai dedicato una copertina sulla rivista “Rolling Stone”. Prende uno stipendio, fa una professione come un’altra che gli consente di vivere una vita normale, con una famiglia e un mutuo da pagare.

Io ho interrotto a poco più di vent’anni la mia carriera da musicista, pensavo di non essere adatto, ho visto il talento e mi sono detto: “Non sono all’altezza, questo non è un posto per me”. Col senno di poi forse non ho fatto benissimo, bastava lavorare il doppio rispetto a Marco, studiare il doppio, impegnarsi il doppio, e avrei di certo colmato la distanza tra l’assenza di talento e l’obiettivo.

Se osservi il panorama musicale odierno, la rockstar non è solo un musicista con un talento spiccato, ma una persona che ha anche doti imprenditoriali, conosce le grandi opportunità delle relazioni, sa gestire la burocrazia, le proprie finanze e – fondamentale – il marketing, che nella musica ricopre ormai un ruolo determinante.

Oggi mi dedico al marketing consapevole di non essere un talento, ma solo un curioso esploratore dell’animo umano, delle debolezze e della forza che esercitano i bisogni – ma soprattutto i desideri – nelle persone. Non sono il migliore, mi sforzo però di essere unico, perché l’unicità la possiede anche chi non ha un talento ed è il solo valore che abbiamo sempre a disposizione.

Ci svalutiamo quando immaginiamo che ci sia qualcosa di magico nel lavoro creativo, qualcosa che può accadere soltanto se siamo nati con questo dono. Non è molto diverso dalla tesi secondo la quale i latinoamericani sono bravi a giocare a calcio o gli abitanti di Modena sanno fare bene le automobili.
L’ambiente, la cultura e la tradizione in cui sei inserito ti formano e ti spingono verso modelli da imitare, e l’eccellenza si ottiene circondandosi di altra eccellenza. Il talento rischia di essere solo la storia che vogliamo raccontarci quando decidiamo di abbandonare il tavolo.

Il DNA, il destino o il dono sono raramente correlati al successo, a una vita felice o a una rendita di posizione. Contano l’atteggiamento, la cultura e il saper ottenere la fiducia delle persone che ci assomigliano.