C’è stato un tempo in cui imparavo per caso. Non studiavo per sapere, ma inciampavo nella conoscenza. Ricordo i pomeriggi passati in garage, da bambino, a smontare una vecchia radio, oppure giocattoli, oggetti complessi, cercando di capirne il meccanismo e vedere cosa nascondevano al loro interno.
O ancora quando, da adolescente, digitavo lunghi listati sul mio Commodore 64 nella speranza che tutto alla fine funzionasse. La documentazione era scarsissima, internet non esisteva, e l’unica strada percorribile consisteva nel tentare nuovi comandi oppure copiare schemi dalle riviste o dalle numerose “cassette” che mi passavano alcuni amici. Nessuno sano di mente lo farebbe oggi, ma l’effetto che ho ottenuto è stato allargare i miei orizzonti e nutrirmi di nuove domande.
Adesso ogni attesa sembra uno spreco, ogni deviazione una perdita. Ma io ho nostalgia di quei momenti in cui nulla era ottimizzato. Quando non esisteva un algoritmo pronto a fornirmi una risposta immediata. Quando la soddisfazione nasceva dallo sbatterci la testa per ore e infine riuscire a farcela. Quando l’apprendimento non era lineare ma caratterizzato da inciampi, ripensamenti, percorsi articolati e inattesi.
Non è solo nostalgia. È una constatazione. Più la vita si fa comoda, meno riesco a sentirmi curioso. Maggiore è la rapidità con cui arrivano le risposte, minore è il numero delle domande che mi pongo.
Allora mi alleno a tornare lì: in un campo da calcio improvvisato, dove si decideva il fuorigioco litigando; alle sere senza notifiche, in cui la noia era fertile; ai pranzi in silenzio, quando nessuno cercava di “riempire il tempo”.
Credo che la curiosità sia un muscolo e, in quanto tale, se non lo usi si atrofizza. Non voglio solo sapere, oggi è troppo facile. Voglio scoprire. Voglio inciampare. Voglio perdere tempo, voglio perdere la pazienza. E, ogni tanto, meravigliarmi di quello che non stavo cercando.
