Luigi Barzini, una firma storica del giornalismo italiano, disse che “il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare”. Credo che questa definizione possa essere applicata, con pochi aggiustamenti, a chi lavora nel web.

Il web sta creando posti di lavoro. Moltissimi, negli ultimi 15 anni, hanno trovato un’occupazione facendo qualcosa che non ha niente a che vedere con una catena di montaggio o con il bancone di un Bar. Oddio, ora che ci penso, alcuni sembrano al Bar e altri in catena di montaggio per come si descrivono e si comportano nei Social Network. A parte gli atteggiamenti lascivi e ripetitivi di questi professionisti, abbiamo oggi il modo di inventarci un lavoro. Siamo in un’epoca in cui possiamo sperimentare nuovi modelli comunicativi e rivenderli a chi riusciamo convincere della loro efficacia.

I motivi sostanzialmente sono due. Il primo riguarda la poca propensione degli imprenditori e dell’intera popolazione a reagire e informarsi di fronte ai cambiamenti. Cambiamenti che, ora, avvengono con una velocità vorticosa tanto da mettere in difficoltà anche persone che li vivono in prima persona. “Nel regno dei ciechi un guercio impera” dicono. Il secondo motivo è che queste tecnologie sono talmente nuove e innovative che vanno “interpretate”. Non ci sono una scuola, un corso di laurea o qualcuno che abbia un modello replicabile e un’unica filosofia di pensiero.
Accade quindi che, chiunque riesca a trovare un idea che venga accolta e seguita dal pubblico, ha, di fatto, la possibilità di guadagnare e rivendere la sua micro popolarità a determinate aziende. Solo qualche anno fa, era impensabile che un semplice blogger guadagnasse 1.000 euro per un post sul suo blog o che un ragazzino di 18 anni firmasse un contratto con la Disney in virtù del fatto che è popolare tra i ragazzini di YouTube. Oggi, tutto questo è realtà. Sono moltissimi che, proclamati e marchiati come “influencer” dalle agenzie di comunicazione, possono vivere facendo quello che avrebbero comunque fatto senza guadagnare un solo euro.
La portata di questo fenomeno, che è solo agli inizi, è destinata ad ampliarsi nel giro di pochissimo tempo. I fattori che rendono questo fenomeno interessante per le aziende sono i costi relativamente contenuti, la perdita di interesse di larga parte della popolazione nei confronti dei vecchi media come TV e giornali e la verticalità comunicativa di questi soggetti. Gli “influencer” sono capaci di accomunare segmenti di popolazione ben profilati, come antennisti, amanti delle biciclette, della buona cucina, dei cani o dei videogiochi.

Chiunque può pubblicare contenuti. Questa è la grande rivoluzione della comunicazione digitale. Pochi lo sanno fare, e pochissimi lo sanno fare bene. Il contenuto che sappia coinvolgere e farsi condividere è qualcosa di unico e di magico, in cui intervengono fattori emotivi che fanno percepire il contenuto stesso come vantaggioso per chi ne divenga fruitore. Diventare “influencer” è molto complesso. Significa intercettare una domanda e rispondere ad essa trasmettendo qualcosa che vada oltre il contenuto puramente informativo. Servono energia, calore, emozioni che non possono essere percepite, assorbite e replicate da chiunque. Un talento unico che può essere rivenduto fino a quando continuerà ad avere un pubblico.