Qualche tempo fa, a margine di un evento, ho preso un aperitivo – chi mi conosce sa che non vado oltre il succo alla pera – con un amico che lavora in una nota multinazionale. Lo vedo spesso su LinkedIn, ma raramente di persona. Era fresco di una promozione importante: nuovo ruolo, nuovo ufficio, nuovo stipendio, macchina aziendale. Il classico “traguardo” a cui molti ambiscono.
L’ho osservato bene mentre parlava. Aveva il tono di chi racconta qualcosa che sa dovrebbe renderlo felice, ma sembrava più un esercizio di autoconvincimento. Mi è parso che non ci credesse fino in fondo.

Tornando a casa, mi sono chiesto se anche io stessi inseguendo davvero ciò che volevo, o solo qualcosa che un tempo ritenevo giusto volere.
Mi ero abituato ad avere metodo, disciplina, obiettivi chiari. Ma non mi chiedevo mai se mancasse qualcosa: l’allineamento interno. La connessione tra ciò che facevo e ciò per cui sentivo un vero trasporto.
Stavo vincendo in un gioco che non avevo mai scelto davvero di giocare?

Quella sera ha segnato l’inizio di una lunga riflessione sull’architettura dell’ambizione. Non su quanto fosse efficace – perché lo era – ma su quanto fosse adatta a ciò che desideravo diventare. Avevo sempre creduto che una buona vita fosse fatta di obiettivi ben scritti. Oggi penso il contrario: la vera direzione nasce da limiti chiari, non da traguardi imposti.
Per anni ho riempito agende di to-do list, mi sono posto obiettivi sempre più ambiziosi e ho tracciato ogni metrica possibile. Era rassicurante. Mi dava l’illusione di avere tutto sotto controllo. Ma, in realtà, era un modo elegante per evitare l’incertezza. Era come disegnare una mappa perfetta su un territorio che cambiava ogni giorno. Un gioco di ruolo, in cui interpretavo un personaggio.

Con il tempo, ho capito che i miei risultati migliori non sono arrivati perché avevo scritto un obiettivo chiaro. Sono arrivati perché mi ero imposto dei limiti non negoziabili: non lavorare con chi non stimo, non vendere cose in cui non credo, non sacrificare la mia salute mentale per una fattura in più.
Le vere evoluzioni, almeno per me, sono nate dai confini, non dai sogni. È lì che ho trovato chiarezza. Ho smesso di chiedermi dove volevo arrivare e ho iniziato a chiedermi cosa non ero disposto a perdere per arrivarci.

È paradossale, ma più ho ristretto il campo, più si è allargato il mio impatto.
Pensa al mondo del lavoro: quante volte inseguiamo una promozione, un aumento o una startup solo perché “dovremmo”? Ti sei mai chiesto se davvero vuoi quella cosa, o se desideri solo la sensazione che provoca negli altri quando gliela racconti?
Gli obiettivi ci spingono a muoverci. Ma i confini ci aiutano a farlo nella direzione giusta. Senza confini, l’ambizione si trasforma in una corsa cieca verso il nulla o, peggio, la frustrazione.
Ecco perché oggi non ragiono più in termini di “dove voglio arrivare tra cinque anni”, ma in termini di “cosa sono disposto a difendere, ogni giorno”.

Un semplice esempio: ho deciso che non lavoro più con chi è distante dai miei valori. Sembrerà banale, ma questo piccolo confine mi ha salvato energie, relazioni e tempo. Ho deciso che non pubblico nulla che non mi rappresenti davvero, che non partecipo a progetti nei quali sento di dover fingere. Non sono obiettivi, sono limiti. E valgono più di qualsiasi piano strategico.
Questa è la mia bussola, oggi.

Sì, gli obiettivi servono. Se devi prepararti per una maratona, un esame, una scadenza. Ma per navigare l’incertezza – cambiare lavoro, reinventarti, capire chi sei – servono strumenti diversi. Serve una direzione, non un obiettivo. Serve un “no” ben detto, più che un “sì” ben scritto.
La prossima volta che ti sentirai bloccato, invece di chiederti “dove voglio arrivare?”, prova a chiederti: “quali compromessi non sono disposto ad accettare?”.
Forse lì troverai la tua vera essenza.
Perché i traguardi possono cambiare. I tuoi valori, no. E sono proprio loro a definire – ogni giorno – chi sei.