Il blog è morto. In molti lo danno per spacciato dopo l’ennesima notizia che un grande quotidiano americano, Wall Street Journal, ne ha chiusi otto in un colpo solo.
«Mantenere un blog personale è diventata un’impresa e i giovani non vogliono averci nulla a che fare, visto che ci sono altre piattaforme più interessanti», ha scritto Mel Campbell sul Guardian. Credo che la giornalista australiana abbia centrato l’essenza del problema.

Il blog esiste da vent’anni, esisteva prima delle app e prima dei social; allora, non aveva concorrenti a parte le mailing list. Oggi esistono migliaia di applicazioni con cui comunicare. Una buona parte delle persone arrivate con l’era degli smartphone, non sa impostare una ricerca su Google, e Facebook, ha sostituito la parola Web in una buona percentuale di popolazione connessa.
Il blog, per sua stessa natura, è visto come elemento ostile dai social network che tendono a trattenere e intrattenere all’interno del loro ecosistema. Anche le persone non amano uscirne, motivo per cui non ho ancora capito se la piattaforma tende più a soddisfare una sua esigenza o un desiderio di chi la utilizza.

Molti blogger hanno rallentato o completamente fermato la produzione di contenuti sul loro blog per rivolgersi verso le più confortevoli piattaforme di social networking. La più amata, Facebook, consente di aprire una pagina, postare testi e video e ottenere un seguito, anche a pagamento. Questo spazio ha la caratteristica di essere un luogo di incontro tra persone con interessi e obiettivi diversi ma accumunati dalla voglia di evadere attraverso contenuti di intrattenimento.
Quando i distratti abitanti di questo territorio scorrono le notizie della loro app, si soffermano con maggiore frequenza su contenuti semplici da individuare e interpretare, concedendo a chi li ha realizzati numerose interazioni; segnali grazie ai quali la piattaforma ritiene il contenuto valido per essere distribuito ad un pubblico più ampio. Decretandone il “successo” momentaneo.

Ho fatto questa breve e già nota digressione per far comprendere che la piattaforma genera una forma mentis in chi la utilizza. “Il medium è il messaggio” diceva qualcuno più perspicace di me. Chi ha avuto un blog per un certo periodo, senza averne visto i benefici effetti, si è lasciato sedurre da uno strumento con cui, con molto meno sforzo, riusciva ad ottenere maggiore pubblico rispetto al decano del web. Ma questa è un’illusione.

“Il blog è duro a causa della fatica necessaria per rimanere interessanti e pertinenti” – Sufia Tippu

Il blog ha una caratteristica unica: forma dei comunicatori. Se vuoi ottenere un minimo di pubblico con il blog devi creare un contenuto curato e confezionato con una attenzione maniacale. Specie oggi che i contenuti sono più numerosi dei potenziali lettori. Questa caratteristica crea le condizioni per un ragionamento a monte sul tipo di contenuto da postare e sulla sua qualità, che vedo spesso disattesa su Facebook, dove i contenuti sono nella maggior parte dei casi creati di getto, senza alcuna analisi strategica e con poca cura estetica. I social network sono un luogo in cui poter sperimentare, ma spesso questa funzione viene immaginata come “ne promuovo 4 vediamo se ne funziona uno”.

Individuare e attirare l’interesse verso un determinato argomento è l’unico modo che abbiamo di promuoverci. Lo possiamo fare anche con i FAX, con i telegrammi o con i pizzini (come quelli di Bernardo Provenzano). Non importa dove inseriamo il contenuto, se questo ha tutte le caratteristiche per poter essere usufruito da chi è interessato. Il blog, per sua natura, dettava delle regole di qualità, mentre le app consentono di arrivare a molti con poco sforzo editoriale, se ci poniamo in modalità entertainment.

Alla fine conta l’impressione che facciamo e le percezioni che sappiamo dare. Forse il blog è morto come strumento, ma non muore la cura che ha saputo insegnarci verso i contenuti, perché se muore anche quella nessun Facebook servirà a renderci diversi da noiose mucche marroni.