Uno studio condotto negli anni ’20 e ’30 presso lo stabilimento Hawthorne Works della Western Electric ha mostrato come i lavoratori migliorassero la produttività solo perché sapevano di essere osservati.
Cosa accade, però, quando il pubblico è composto da migliaia di persone? E quanto resta autentico ciò che mostriamo quando ogni nostro post, ogni nostro pensiero, ogni nostra espressione sono esaminati in tempo reale?

I social media ci hanno resi allo stesso tempo osservati e osservatori, intrappolati in un loop in cui esibizione e giudizio sono inestricabili. Ogni piattaforma è un teatro in cui siamo sia spettatori che attori. Diventiamo il risultato di un applauso perpetuo e nervoso, mentre cerchiamo di superare noi stessi o gli altri.

Sui social, l’“effetto osservatore” è amplificato a livelli mai visti prima. Ogni like, ogni commento, ogni condivisione altera sottilmente (o pesantemente) il nostro modo di pensare, di agire e persino di esistere. Il confine tra espressione genuina e autoparodia indotta dagli algoritmi è ormai dissolto in un flusso infinito di contenuti alla ricerca di performance, oscillando tra “meme”, messaggi motivazionali e disperati tentativi di accettazione. Persino scattare una semplice foto della pizza che abbiamo nel piatto diventa un atto sociale carico di significati e aspettative.

Quando sai di essere osservato, cambi. Magari pensi di no, ma è quello che ti succede. E quando migliaia di estranei possono sbirciare la tua vita con un semplice scroll, è inevitabile che inizi a pensare come un pubblicitario, un brand o un ufficio marketing. All’inizio vuoi solo condividere un pensiero, poi vedi che funziona (o che non funziona) e inizi a modificarlo. “È piaciuto? Ne farò di più. L’hanno criticato? Meglio cancellare e rifarlo o aggiustarlo.”

Ci stiamo modellando da soli in base a frammenti di feedback casuali, diventando l’espressione delle aspettative altrui. Quanto di noi è ancora autentico? E quanto è solo il riflesso di ciò che pensiamo di dover essere? Mi interrogo ogni giorno sul potere che questa dinamica ha su di me.
I social non hanno inventato la performance: gli esseri umani si sono sempre impegnati a esibirsi gli uni per gli altri. La differenza è che un tempo l’audience era limitata a una cerchia ristretta, mentre oggi è una platea enorme. Ogni pensiero estemporaneo viene sezionato, giudicato e trasformato in una dichiarazione pubblica. Questa iper-visibilità porta a un’iper-vulnerabilità, che porta a sua volta a un’iper-incoerenza derivata dalla paura di non essere accettati.

Viviamo le nostre vite più o meno consapevoli del fatto che tutto ciò che facciamo è in parte alterato, allestito, messo in scena, contaminato dal giudizio altrui.
Non dobbiamo stupirci se siamo così distorti: a forza di guardarci costantemente a vicenda, nessuno è più davvero sé stesso.
E un bel giorno è successo che, guardandomi allo specchio, mi sono chiesto dove sia finita la versione autentica di me, o – peggio – se sia mai esistita.